Debito pubblico, un’analisi di Roberto Marchesi

Riporto un interessante articolo di Roberto Marchesi, pubblicato su Rinascita 

 

 

Roberto Marchesi è scrittore, pubblicista e opinionista, esperto di politica, economia  e finanza internazionale. E’ tra l’altro autore di “Scoprire un’altra America” e “Buongiorno Italy”. Da alcuni anni vive nel Texas.

 

Debito pubblico, il male non viene sempre per nuocere

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Giovedì 17 Dicembre 2009 – 10:22 – Roberto Marchesi stampa
Debito pubblico, il male non viene sempre per nuocere

Il titolo di questo articolo ricorda un notissimo proverbio che dice nella sostanza di riflettere bene prima di condannare in assoluto quello che ci appare come un effetto negativo, poiché in alcuni casi potrebbe invece rivelarsi essere un effetto positivo, non chiaramente visibile a prima vista. Può essere il caso del deficit nel bilancio degli Stati e su questo punto mi voglio soffermare. Il deficit di bilancio, negli Stati, è giustamente considerato un peso per l’economia del paese, ed è normalmente da evitare poiché si tratta di un debito a carico dei cittadini che presto o tardi dovrà essere pagato, e che più elevato è e più peserà a lungo sui cittadini e sulle loro future generazioni.
Nei casi dell’Italia e degli Stati Uniti si tratta di un debito gigantesco: per l’Italia sono oggi circa 1.800 miliardi di euro che, suddivisi per circa 60 milioni di cittadini fanno un debito di circa 30.000 euro a testa (ovvero, al cambio attuale di 1,5 dollari contro 1 euro farebbero, per gli italiani che vivono in Usa, circa 45.000 dollari a testa).
Per gli Usa invece il debito è attualmente di 12.100 miliardi di dollari che, suddiviso sui circa 307 milioni di abitanti, fa circa 39.400 dollari a testa.
Quindi la dimensione debitoria dei due paesi, presa pro-capite, è pressappoco simile, ma si tratta in entrambi i casi di un debito enorme, certamente preoccupante.
Tuttavia mentre il debito pubblico statunitense è cresciuto in modo esponenziale solo negli ultimi nove anni (a causa soprattutto di una folle politica di detassazione mantenuta anche in contemporanea alle ingenti spese delle guerre) che prosegue tuttora velocemente a causa degli impegni per fronteggiare la crisi, nel caso dell’Italia si tratta di un debito molto più vecchio, che la instabile e/o populista politica dei governi succedutisi negli ultimi venticinque anni non ha potuto o saputo fin qui risolvere nemmeno in parte.
E’ certo comunque, stando così le cose, che per un cittadino italiano, così come per uno americano, far nascere un bambino o una bambina e infilargli subito nel pannolone una cambiale da pagare di circa 30.000 euro o 40.000 dollari, non è di sicuro un buon modo per augurargli una vita serena.
Tuttavia una corretta politica di repulsione dall’indebitamento non deve far ignorare le particolari sollecitazioni derivanti da situazioni economiche congiunturali, e perciò, sul debito pubblico, va detto qualcosa di più, ad evitare di considerarlo una specie di maledizione da cui liberarsi al più presto e ad ogni costo. Il non far nulla sarebbe, per un responsabile dell’economia, un errore imperdonabile, che potrebbe costare alle future generazioni ancor più guai che l’aumentare il debito.
Su questo punto controverso (non tanto per i comuni cittadini, che in genere non se ne occupano, ma per i politici, cui spettano le scelte in economia e che spesso sono i primi a non sapere che pesci pigliare) si sono pronunciati recentemente economisti di chiara fama, come i premi Nobel Krugman e Stiglitz e il prof. Frank, per dire che il danno maggiore, in questa fase di recessione, sarebbe quello che deriverebbe dall’attuare adesso, subito, una politica di restrizioni che soffocherebbe ulteriormente l’economia già ansimante per la difficile fase congiunturale.
Oltretutto significherebbe ignorare una esperienza che è già stata fatta (purtroppo) negli anni ‘20 e ‘30 quando, al fine di terminare la fase degli eccessi e avviare un ciclo virtuoso, è stata immediatamente imposta una politica di rigore economico e monetario. Il risultato però è stato invece quello di generare un lunghissimo periodo di recessione, poi definito “depressione”.
Il debito pubblico, sia in Usa che in Italia, si è incrementato negli ultimi dieci anni circa quasi esclusivamente per scelte politiche (la conquista di voti e poltrone) e non per ragioni economiche. In Usa almeno metà dell’attuale debito pubblico, generato dal costo delle guerre in contemporanea alla sostanziosa politica di detassazione (soprattutto dei ceti più abbienti), si poteva evitare; e anche in Italia, nonostante il già elevatissimo livello del debito pubblico, si sono succedute politiche di detassazione demagogica (p.es. la completa eliminazione della tassa di successione e dell’Ici) e l’assunzione di nuovi debiti allo Stato (p.es. Alitalia) che si potevano, se le ragioni fossero state esclusivamente economiche, tranquillamente evitare.
Questi sono perciò i classici casi in cui l’aumento del debito pubblico ha motivazioni di natura quasi esclusivamente politica e sui quali doveva perciò scattare la scure del rigore. Invece non è stato fatto, sempre per ragioni quasi esclusivamente di interesse politico ed elettorale, producendo perciò un grave danno all’equilibrio economico-finanziario del paese e generando le cifre negative di cui sopra.
Ma è molto diverso il caso di quando il debito pubblico viene aumentato per avviare investimenti pubblici che possono generare migliaia di posti di lavoro i quali a loro volta generano maggiori consumi interni e rilanciano in modo diretto l’economia del paese.
Si tenga conto che aumentare i consumi in una fase economica già espansiva è consumismo (che spinge tra l’altro all’aumento dell’indebitamento privato), farlo invece in una fase di recessione è saggia politica economica, perché evita di far entrare l’economia in una spirale depressiva che può essere anche molto lunga e dolorosa, può arrivare a colpire tutte le fasce di reddito, non solo quelle delle categorie più povere, e può in definitiva mettere l’intero paese in una fase di sofferenza generalizzata dalla quale sarebbe sempre più difficile risollevarsi, soprattutto in questa fase nella quale la globalizzazione fa emergere nuove economie contro le quali diventa sempre più arduo competere.
Gli economisti hanno già fornito diversi esempi di questa casistica: gli investimenti sulle opere pubbliche, sulla ricerca e sulle incentivazioni all’occupazione sono un beneficio non solo per chi ne può godere direttamente ma, per effetto della circolazione della moneta e dei beni, diventa un beneficio per tutto il paese.
In questo senso quindi un oculato aumento della spesa pubblica non è da considerare negativamente in quanto produce subito nel paese quella ricchezza che non solo consentirà (con una politica fiscale oculata) di recuperare in fretta la maggiore spesa, ma anche di avviare per davvero, non appena sarà finita la fase recessiva, una seria politica di rientro dall’indebitamento pregresso.
Sotto il profilo dell’azione fiscale, più che ad un gravoso incremento della tassazione progressiva sulle fasce più abbienti occorrerebbe dare l’avvio ad una seria politica fiscale mirata a colpire soprattutto quelli che sono gli effetti perversi della crescita nelle transazioni economiche e finanziarie (gli inglesi le chiamano “Pigovian taxes” dal nome del suo ideatore, l’economista inglese Arthur Cecil Pigou).
Nella sostanza si tratta di disincentivare attraverso la tassazione quelle operazioni economiche e/o finanziarie che, se lasciate libere nel mercato, producono effetti dannosi alle economie.
Un esempio pratico di questo tipo di azione è stato negli anni passati la pesante tassazione delle emissioni di ossido di zolfo (che liberate nell’atmosfera producevano le piogge acide). La tassazione ha costretto le aziende a trovare nuove forme di combustione che hanno ridotto drasticamente quel tipo di emissioni.
Allo stesso modo si potrebbero (e dovrebbero) tassare pesantemente i guadagni delle operazioni puramente speculative in borsa. In questo modo, oltre ad attivare un importante introito per gli Stati (che troverebbero finalmente le risorse per diminuire il debito pubblico o per finanziare opere di utilità sociale), si metterebbe anche un consistente argine al riformarsi di quelle “bolle” speculative che ormai, con sempre più breve periodicità, mettono in affanno e a grave rischio le economie dei paesi più industrializzati

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